Lavoratori tra coscienza e conoscenza

di Viola Caon


APPUNTI SU DI UN LIBRO E I COCCI DI UNA CLASSE (3)

Oltre alle questioni presentate nei precedenti interventi sull’argomento, la riflessione di Sergio Bologna offre spunti particolarmente interessanti anche in un intervento apparso sull’ottavo numero della rivista L’ospite ingrato.

I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, è questo il titolo dell’articolo che ha posto per la prima volta nel nostro paese la questione della presenza di una nuova classe sociale.

In tempi appena meno allarmanti di ora (l’articolo risale al 2005), Bologna affrontava il tema del precariato analizzando le evoluzioni che i soggetti protagonisti del mercato del lavoro (impiegati e operai da una parte e imprenditori dall’altra) hanno subito nel passaggio da un sistema di produzione fordista a uno postfordista. L’assunto alla base di tutta l’analisi è che il passaggio dalla prima alla seconda modalità ha provocato una frammentazione dei luoghi di produzione e un conseguente annientamento della conflittualità tra le parti.

In altre parole, quello che una volta era individuabile come potenziale conflittuale nelle fabbriche viene oggi rintracciato da Bologna in un altro luogo della produzione, in quanto forza di opposizione alla capitalismo postfordista: ovvero nei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”.

L’articolo, interessante e stimolante, a tratti illuminante e provocatorio, pone almeno due questioni che valgono la pena di essere esaminate: quella dell’autoconsapevolezza di questa nuova ipotetica classe sociale e, questione più complicata e di difficile soluzione, quella del mito del posto fisso, miraggio via via sempre più chimerico per le attuali generazioni.

Prima di affrontarle entrambe, è il caso di chiarire l’entità del lavoratore della conoscenza e di tracciarne l’evoluzione storica. Espressione in uso a partire da un saggio degli anni ’50 dell’economista Peter Drucker, l’etichetta knowledge workers era servita ad individuare quelle nuove categorie di lavoratori che, per una serie di qualità nuove nel panorama lavorativo dell’epoca, segnavano il passaggio da una società industriale, fatta di macchine e di operai in tuta, basata sulla produzione di beni concreti e materiale, ad una società postindustriale, rappresentata da ventiquattrore, giacche&cravatta, scambi finanziari, giochi in borsa e investimenti su beni immateriali. Stiamo parlando, in parole povere, del noto passaggio dai “colletti blu” (gli operai) ai “colletti bianchi” (gli impiegati).

In una società come questa il potenziale conflittuale, secondo Bologna, non deve più essere cercato nella classe operaia, divisa e frantumata più che mai, ma in questa nuova classe di lavoratori- impiegati, legatari di quella che viene chiamata “società della conoscenza”. In concreto, si sta parlando di tutte quelle professioni raggruppate sotto le seguenti categorie : legislatori, dirigenti, imprenditori; intellettuali; tecnici informatici ecc.

Ma per quale motivo queste categorie di lavoratori, che svolgono attività più leggere e di diversa posizione nei confronti del datore di lavoro rispetto a quelle in cui agivano gli operai, dovrebbero contenere un altrettanto forte potenziale conflittuale, tale da difendere come facevano gli operai i diritti propri e quelli della propria categoria? Perché, ci dice Bologna, essi devono essere considerati tutt’altro che una classe di privilegiati, “ma, anzi, come una classe di sfruttati”, per cui “da loro ci si aspettano comportamenti conflittuali con l’ordine esistente: ci si aspetta da loro […] un forte impegno associativo e sindacale, soprattutto nel settore pubblico.”

In altre parole, dice Bologna, ci si aspetterebbe che tutta quella fascia eterogenea di lavoratori che si trova oggi a fluttuare tra contratti a progetto, contratti a tempo determinato e così via riesca a fare fronte comune e a pretendere dei diritti. Tuttavia, perché, nonostante le condizioni di oggettiva precarietà e di negazione del diritto al lavoro, questo non succede?

I motivi sono molteplici e complicati, ma uno essenziale potrebbe essere individuato in una sostanziale differenza tra “colletto blu” e “colletto bianco” che corrisponde a una perdita avvenuta a un certo punto della storia. Il lavoratore della conoscenza postfordista ha infatti subito una sostanziale evoluzione rispetto a quello teorizzato negli anni ’50 da Drucker a causa della sempre maggiore settorializzazione del lavoro e della vita lavorativa che l’hanno progressivamente trasformato da “quadro mediatore” tra base di produzione e quadro dirigenziale a “quadro isolato”, ovvero a lavoratore individualizzato che ha necessità di tutelare i propri interessi non preoccupandosi di quelli degli altri. Succede così, ci dice Bologna, che “incapaci di organizzarsi collettivamente, i knowledge workers […] battono in ritirata, si chiudono in se stessi, ricorrono a forme di resistenza passiva.” Il passaggio da un sistema all’altro pare, dunque, che abbia determinato la scissione e l’isolamento del lavoratore dal resto della comunità di cui pure continua a fare parte, togliendogli la principale caratteristica che è necessaria a quell’elemento di conflittualità che da esso si attendono: l’autoconsapevolezza. Sarebbe interessante a questo punto sapere in che termini Bologna si aspetti di vedere reagire insieme una classe che fatica ad orientarsi e a riconoscersi come tale, i cui componenti hanno anzi a volte addirittura difficoltà a definire se stessi.

Non è questo l’unico punto che fa percepire come particolare e certamente innovativa l’analisi presente nell’articolo. Piuttosto nuove e provocatorie suonano anche le considerazioni di Bologna rispetto alla formazione e alle caratteristiche che essa dovrebbe avere per fornire i futuri “lavoratori della conoscenza” delle qualità adatte ad affrontare l’orizzonte di un mercato lavorativo sempre più instabile e precario. Muovendo una critica abbastanza aperta e diretta all’Università, ritenuta il luogo principale della formazione, Bologna dice:

Se la prospettiva del futuro è una prospettiva di permanente instabilità, all’interno della quale il “lavoratore della conoscenza” deve essere disponibile a mutamenti continui […] non si capisce perché l’ordinamento degli studi […] non abbia cercato di rinnovarsi, ripensando i curricula e i metodi didattici

Tralasciando i termini specifici di questa polemica, vale la pena sottolineare, per eventuali spunti di discussione e di riflessione, che la formazione alla quale l’autore pensa è una formazione di carattere universale che comprenda caratteristiche di flessibilità, di pubblica relazione e di capacità di riciclo e ripensamento del proprio ruolo fondamentali per la sopravvivenza nell’attuale mercato del lavoro.

È proprio sul termine “riciclarsi” che si basa l’innovazione della riflessione di Bologna su relazione tra nuovi lavoratori e posto fisso:

Il termine “riciclarsi”, per esempio, che nel nostro linguaggio assume un significato che riporta il pensiero a comportamenti ambigui, opportunistici, a scelte professionalmente e moralmente criticabili […], inserito invece in una visione del mondo e del lavoro dove ha cittadinanza la definizione di “lavoratore della conoscenza” delineata in precedenza, perde il suo connotato negativo, per diventare anzi un riconoscimento di capacità di adattamento dell’individuo ad un mercato del lavoro caratterizzato da elevata volatilità e incertezza. È solo il nostro primordiale attaccamento all’immagine del “posto fisso”, all’immagine della “specializzazione” […] che ci fa considerare la flessibilità, la mobilità da una mansione a un’altra come atti riprovevoli o come una condizione costrittiva e disagiata.

In altre parole, conclude Bologna, i concetti di mobilità, flessibilità, lavoratore della conoscenza sono ancora in attesa di ricevere cittadinanza nell’orizzonte culturale italiano, dove “la rivoluzione culturale all’interno dell’universo della formazione” necessaria alla formazione di soggetti pronti ai nuovi scenari lavorativi non è ancora avvenuta.

Posizione certamente interessante e sulla quale vale la pena di riflettere.

S. Bologna, I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli in “L’ospite ingrato”, numero 8, p. 21

Cit., p.26

Cit., p. 29

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Franco Marzoli ha detto:

    Mi permetto di fare qualche commento al sostanzioso articolo di Viola pur non avendo visto la fonte (il saggio di Bologna) cui è riferito.
    I nuovi “lavoratori della conoscenza” rappresenterebbero una nuova “classe sociale” ancora non provvista di autocoscienza….
    Bisognerebbe, per avallare, questa audace interpretazione, chiarire innanzitutto cos’è una classe sociale e chi sono i lavoratori della conoscenza.
    Mentre per il concetto di classe risulterebbe nell’attuale società occidentale di ben difficile applicazione il concetto marxista (con la distinzione tra: operai salariati, capitalisti e proprietari fondiari) forse risulterebbe più intellegibile la definizione del Sabatini-Coletti he la definisce come ” fascia di popolazione con una particolare connotazione economica e sociale e con interessi e cultura comuni.”
    Anche in questo caso però mi sembra difficile ricollegare a questa categoria la moltitudine dei “lavoratori della conoscenza” soprattutto se limitata alle sole categorie citate da Viola: legislatori, dirigenti, imprenditori, intellettuali, tecnici informatici.
    Di queste almeno le prime tre, infatti, potrebbero essere collegate ad uno status elevato, diversamente dall’ultima collegabile invece tra i cosiddetti ceti medi.
    Questi dubbi nulla tolgono all’importanza del problema che il terziario avanzato e i suoi lavoratori pongono nelle società progredite. In sostanza i white collars novecenteschi si sono moltiplicati e disgregati, trovandosi poi spesso in una grande crisi identitaria, di ruolo e professionale. Si tratta di “sfruttati”? Difficile dirlo. Dipende da chi sono, che ruolo hanno, se sono professionisti o lavoratori dipendenti ecc…
    Ben diversa è infatti la posizione dell’architetto o del legale affermato rispetto a quella del neolaureato che lavora in un call center.
    La difficoltà, a mio parere, di operare corrette generalizzazioni nulla toglie ad un altro tema di fondo sollevato nell’articolo di Viola. Quello dell’inadeguatezza dell’Università. Al termine della mia recente nuova esperienza nel mondo universitario ho tratto la personale convinzione che l’istituzione così com’è (almeno nelle facoltà letterarie) sia assai poco utile e rispondente alle esigenze del mondo esterno e del mercato del lavoro. Il suo maggior difetto consiste proprio nell’essere avulsa dalla realtà, e quindi di non essere formativa. In altre parole ho l’impressione che gli studenti, al termine del loro escursus accademico, siano impreparati ad affrontare la vita e il lavoro. E, quel che è peggio, a volte senza nemmeno essere coscienti della loro separatezza.

  2. Amaranta ha detto:

    Caro Franco,
    in effetti il problema universitario è emerso anche durante il dibattito con Bologna. Mi permetto di sottolineare questo aspetto molto importante,
    giustamente messo in evidenza da Viola. Il problema nasce dallo squilibrio tra le competenze richieste ai lavoratori della conoscenza e quelle fornite dal sistema di formazione secondaria e universitario.
    A questo si aggiunge la necessità di un incastrare in un fragile equilibrio le competenze, funzionali al lavoro, e le conoscenze, fini a se stesse e imprescindibili dalla maturazione umana di un futuro lavoratore.
    Tutte queste problematiche, se ti interessa, sono trattate anche da Emiliana Armano nel libro “Precarietà e innovazione nel postfordismo” e da Gigi Roggero in un articolo apparso sull'”Ospite”.
    Purtroppo per il problema non è facile proporre una via d’uscita o una soluzione (lo stesso sociologo non è stato “a ragione” in grado di rispondere alla domanda che su questo argomento gli ho posto: è forse ancora presto per maturare una strategia di intervento!).
    Gli spunti di riflessione sono molti e speriamo di sensibilizzare con questi articoli e con i prossimi che verranno…

  3. Franco Marzoli ha detto:

    E’ vero, come sostiene Amaranta, che “il problema nasce dallo squilibrio tra le competenze richieste ai lavoratori della conoscenza e quelle fornite dal sistema della formazione..”
    Va considerato infatti che il mercato del lavoro non è un’entità astratta ma è costituito da singole realtà imprenditoriali che, come tali, si debbono avvalere di ben specifiche figure professionali. E ciò vale ovviamente anche per le imprese che operano nel campo della cultura (ad esempio in campo editoriale, artistico, dell’informazione…).
    La struttura accademica ben poco si cura di dare una formazione adeguata agli studenti dal momento che in essa tendono spesso a prevalere logiche e interessi particolari.
    Del resto, stando almeno alla mia esperienza presso UNISI, anche gli stessi studenti ben poco sembrano curarsi del loro futuro professionale limitando le loro contestazioni ad aspetti sindacali e senza mettere in seria discussione i contenuti dell’insegnamento e i metodi didattici.
    Esiste un mondo esterno all’università che va conosciuto. Ma ciò non sembra interessare i più.
    Pochissimi sono infatti i contatti che avvengono tra istituzioni universitarie e il mondo reale del lavoro, dell’economia, delle imprese, del disagio sociale…
    Mi sembrerebbe, in sintesi, giunto il momento di scendere dal tappeto volante e mettere un pò i piedi sul suolo , anche se il terreno potrà inevitabilmente apparire sudicio non poco.

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