Rappresentazioni invisibili

di Lorenzo Mecozzi

APPUNTI SU DI UN LIBRO E I COCCI DI UNA CLASSE (2)

Nel saggio Dalla classe operaia alla creative class: La trasformazione di un quartiere di Milano, allegato al documentario Oltre il ponte – Storie di lavoro, Sergio Bologna lancia una chiara provocazione a chi vuole studiare, analizzare, rappresentare il mondo del lavoro: “allontanarsi dagli schemi del passato, dalla sequenza lavoro-sfruttamento-proletariato” che si trova facilmente nei lavori manuali svolti dagli immigrati o nei call center. L’obiettivo, secondo Bologna, deve essere quello di concentrare l’attenzione sul nuovo mondo del lavoro, sull’economia della conoscenza, sul settore dell’entertainment che produce più posti di lavoro dell’industria automobilistica. Il mondo nuovo, al di là del giudizio che se ne può dare, necessita d’essere compreso, studiato, rappresentato.

Bologna è consapevole delle difficoltà oggettive che questo comporta. Quando scrive: “le immagini della classe operaia del fordismo parlano da sole, hanno nel tempo accumulato significatività”; “un uomo o una donna davanti a un computer” non hanno la stessa “forza di comunicazione tale che ne fa dei veicoli di valori, di culture, di storia”, esprime chiaramente come la mutazione a livello sociologico si accompagni ad un cambiamento inevitabile dell’immaginario collettivo.

Donata Meneghelli, in Fabbrica: andata e ritorno, articolo apparso sul numero di dicembre di “Letteraria”, a sua volta scrive: “la fabbrica esiste ancora, sebbene diversamente strutturata e organizzata […] e gli operai sono ormai considerati marginali, residuali: irretiti nel ciclo coatto del consumo, decentrati e polverizzati da un trentennio di rivoluzione tecnologica”.

Sebbene possa sembrare che la tesi della Meneghelli, che parla ancora di fabbriche ed operai, vada contro Bologna, che invece analizza il loro superamento, in realtà non è così. Entrambi parlano della condizione dei lavorati nell’epoca post-fordista, e della loro rappresentabilità, della loro narrabilità.

La fine del concetto di classe, legata indissolubilmente alla contemporaneità, nella misura in cui questa impone il superamento delle logiche produttive fordiste, colpisce entrambe le categorie di lavoratori, protagoniste del medesimo fenomeno: la deindustrializzazione.

È per questo motivo che sia Bologna che Meneghelli pongono il problema della rappresentazione. La dislocazione produttiva produce una scomparsa materiale del luogo di lavoro, impedendo che si sviluppino le vecchie logiche associative. I nuovi lavoratori affrontano nella più completa solitudine il proprio futuro, non potendo più contare su quegli orizzonti comuni che garantivano, in passato, la forza contrattuale al mondo operaio. La vecchia guerra classista si è trasformata in un continuo bellum omnium contra omnes che relativizza incommensurabilmente le categorie con le quali si è sempre giudicato il mondo del lavoro.

Per comprendere davvero la mutazione epocale è necessario capire come gli stessi lavoratori della “creative class” abbiano introiettato un nuovo modo di vivere i rapporti sociali, un surrogato del sogno americano che, azzerando la concezione fordista del lavoro, rischia di renderli estranei a loro stessi, di alienarli da quella porzione di esistenza che il vecchio mondo concedeva loro: il tempo libero; la vita oltre lavoro. La narrabilità del lavoro immateriale può passare anche attraverso la rappresentazione della quotidianità di quelli che un tempo erano i lavoratori, persone, ed ora sono solo “risorse umane”

Ed in questo senso credo vada letta con attenzione l’opera di un giovane scrittore, Giorgio Falco, che ne L’ubicazione del bene (Torino, Einaudi 2009) tenta di rappresentare i nuovi lavoratori, e le conseguenze che un’immersione totale nel nuovo contesto lavorativo, ed esistenziale, può produrre dopo l’ebbrezza per l’entusiasmo iniziale. L’importanza del lavoro di Falco, della sua descrizione della vita nella periferia milanese, è profondamente legata al giudizio sul mondo del lavoro post-fordista, perché ne coglie la natura totalizzante, nella sua tendenza a disarticolare le relazioni umane. I nuovi lavoratori sono ancora più soli, perché prigionieri di meccanismi economici che li trascendono, costretti a muoversi in un mondo che promette loro la massima libertà di scelta, e la più vasta offerta di possibilità, finendo con l’anestetizzare l’iniziale vitalità con cui questi professionals si erano inseriti nel mondo del mercato.

Nella quarta di copertina del libro c’è scritto: “il lavoro non si vede più, è dappertutto, ha invaso i comportamenti quotidiani, affettivi”; ma ancora più significativi sono i pensieri del protagonista di Oscar, il quinto racconto del libro:

“il vino rosso ha un debito con me. Ho rinunciato al vino rosso dopo una cena di lavoro in un ristorante brasiliano. Avevo bevuto troppo, il mio capo aveva chiesto informazioni sui miei progetti […] e io, lusingato ed entusiasta, avevo raccontato tutto, a ogni parola sentivo di commettere un errore, ogni parola mi scopriva, mi suicidava, eppure non potevo smettere. […]

Il mio capo aveva spacciato per sue tutte le mie valutazioni, aveva suscitato l’approvazione entusiastica del suo capo. Ciò che il vino rosso mi ha tolto, ora me lo deve restituire. […] Il mercato è dove avvengono cose rivoluzionarie che noi condividiamo. “

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