Uno sguardo dal ponte

di Amaranta Sbardella

APPUNTI SU DI UN LIBRO E I COCCI DI UNA CLASSE (1)

Il 7 maggio ci vedrà riuniti assieme al Centro “Franco Fortini” e allo studioso Sergio Bologna per presentare il lavoro di quest’ultimo e per discutere della situazione attuale dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”.

Preliminare al dibattito sarà la proiezione del documentario “Oltre il ponte – Storie di lavoro” di Sabina Bologna, figlia dell’intellettuale triestino; lo stesso Bologna racconta l’avventura dell’elaborazione del documentario nel testo “Dalla classe operaia alla creative class: La trasformazione di un quartiere di Milano”, all’interno del quale momenti descrittivi ed evocativi si uniscono a riflessioni teoriche sulla condizione della società contemporanea.

Sergio Bologna ha alle spalle una trentennale esperienza quale professore di Storia del movimento operaio e della società industriale in diversi atenei in Italia e all’estero. Fa parte del comitato scientifico della Fondazione di Amburgo per la storia sociale del XX secolo e della Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia. Consigliere presso l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato, è anche presidente della Libera Università di Milano; è inoltre responsabile della sezione “Conflitto-Lavoro” presso il Centro Studi “Franco Fortini”. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro” e Le multinazionali del mare”, che testimoniano il profondo interesse dell’autore per il panorama contemporaneo sociale ed economico. La sua versatilità e acume lo hanno reso uno dei più rinomati operaisti e sociologi italiani.

Oltre il ponte” è una delle sue ultime opere, nata dalla sforzo congiunto di padre e figlia per raccontarci i cambiamenti di una particolare realtà milanese, gravitante intorno alla “zona Tortona”. Questo circoscritto quartiere di Milano ha assistito, negli ultimi quarant’anni, al passaggio da una realtà operaia, condizionata dalla presenza delle fabbriche Cge-Ansaldo e Riva-Calzoni, ad un ambiente cosmopolita ed eclettico, nel quale le strutture architettoniche delle fabbriche sono reinventate da studi fotografici e spazi espositivi. Il panorama risulta essere più variegato ma allo stesso tempo più incerto, giacché la fauna umana che popola questi luoghi è costituita da professionisti, “knowledge workers”, stagisti, che vivono il continuo rischio di mettere a prova le proprie competenze e di vivere in funzione di un lavoro non sempre adeguatamente retribuito o considerato.

La condizione dei “lavoratori della conoscenza”, dei knowledge workers è caratterizzata dalla flessibilità, ma anche dalla precarietà, dall’occasione di mettere in gioco le proprie versatili competenze e dall’eventualità di non riuscire a guadagnare un posto fisso.

In tal modo la rappresentazione di un caso particolare, quello del quartiere Tortona, diviene a volte esemplificativo di un tessuto sociale contemporaneo di grande problematicità. I luoghi, ovvero le fabbriche, gli stand, gli uffici si modificano e sono il riflesso di quest’evoluzione, o involuzione, del processo lavorativo.

Il documentario cerca così di rendere viva questa dinamica, tramite interviste e riprese. Dietro gli operai e sindacalisti della prima parte dell’opera si avverte la presenza di una collettività, di una massa operaia che ha costruito la propria vita insieme all’insegna delle proteste e delle rivendicazioni sociali. In un secondo momento le voci degli operai lasciano spazio alle individualità dei numerosi “lavoratori della conoscenza” ed è come se l’intera atmosfera divenisse più fragile, sottolineata da una luce delle riprese più diafana e inconsistente. Volti di giovani senza la speranza di un futuro certo, carichi del proprio bagaglio di competenza ma privi di una consapevolezza del proprio lavoro e della propria forza di classe, testimoniano la labile sicurezza della società postfordista.

Gli spunti di riflessione sono molti, le suggestioni varie, anche perché si percepisce l’inadeguatezza di una realtà sociale che ci colpisce dal vivo e  che ci porta a cercare di sciogliere questa fitta trama in chiavi di lettura e proposte. Molto probabilmente, sarà questo il nostro futuro e la nostra condizione identitaria.

Un commento Aggiungi il tuo

  1. Franco Marzoli ha detto:

    Non ho visto il documentario che viene proposto e putroppo, causa forzata assenza, non sarò in grado di vederlo giovedì; ma da milanese anzianotto posso testimoniare la validità dell’analisi del mutamento della società di quel quartiere che ne fa Amaranta Sbardella. In effetti la mutazione di questi ultimi decenni è stata fortissima in quel quartiere e in molti altri presenti a Milano e tale da sconvolgere abitudini, dinamiche sociali e conseguentemente le reazioni elettorali dei residenti.
    Il fatto è che la tradizionale società industriale (basata su forme di solidaristica e di scontro) milanese è praticamente scomparsa lasciando il posto ad una realtà a macchie di leopardo dove diventa molto più difficile individuare tendenze riconoscibili quali quelle novecentesche di classe.
    Il processo appare irreversible. Una delle sue palesi conseguenze consiste nel non riconoscersi più. Milano sembra diventata un alveare dove tutti corrono con scarsi e superficiali livelli di comunicazione anche all’interno delle medesime corporazioni…
    Come cercare di ricomporre il tessuto sociale lacerato dando quindi un senso al proprio rapporto con l’altro?
    E’ una domanda che si fanno in molti, e che non trova facili risposte. Forse il cambiamento, se mai potrà venire, potrebbe scaturire da una maggiore sensibilità verso una nuova dimensione spirituale e dall’indispensabile sviluppo di forme di ecologia dell’ambiente e della mente…
    Verso questa strada stano portando alcuni indizi: uno fra questi le tremila firme raccolte in un battibaleno a favore del recupero del progetto di Piano – Abbado per una piantumazione in centro città.
    Temo comunque che la via sia lunga, molto lunga…e di non facile percorribilità.

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