Lettura di “Pantomima terrestre”

di Damiano Frasca 

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[Questa lettura di Pantomima terrestre è tratta da D. Frasca, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, in corso di stampa]

Nel 1963, dopo aver letto alcune delle poesie che sarebbero poi confluite in Nel magma, Sereni scrive a Luzi: «Pensa a come eravamo ‘diversi’, pur se affettivamente vicini, nel ’40, ancora dopo il ’45 e pensa ad ora. Se non addirittura sullo stesso terreno, siamo su terreni straordinariamente simili»[1]. Ed in effetti, i componimenti di Nel magma e degli Strumenti umani sanciscono l’incontro, in terreni simili, di due itinerari poetici rimasti a lungo distinti. Certo, soprattutto nella sua prima parte, Frontiera risente del clima letterario dominante in Italia negli anni Trenta; eppure è significativo il ricorso di alcuni noti critici a formule trasversali del tipo ornato aristocratico o lingua petrarchesca, frutto di una reticenza e insieme della difficoltà di definire ermetico lo stile di Sereni[2]. Spesso viene ricordato che la recensione sereniana del 1940 alle Occasioni ha, proprio per la lettura di Montale come autore antisimbolista, anche il valore di documento di poetica[3]. D’altronde basta considerare il peso riconosciuto alla vita empirica, concreta del poeta in Diario d’Algeria[4], per rendersi conto della distanza di questo libro rispetto ad un’opera coeva come Quaderno gotico.

Nei primi anni Sessanta, però, pur mantenendo una visibile autonomia, Luzi e Sereni instaurano un rapporto con il genere lirico per molti aspetti affine. Si ritrovano, cioè, ad agire insieme all’interno di quel filone della poesia contemporanea che possiamo indicare con la formula classicismo moderno[5]. Per i classicisti moderni reiterare un gesto tipico della lirica, come mettere al centro il proprio io, è ancora la chiave per fare una poesia che contenga verità che riguardano la vita di molti uomini. Negli anni Sessanta Luzi e Sereni «continuano a prendere sul serio la propria esperienza, a considerarla universalmente esemplare»[6]. Certo, da un poeta all’altro variano i fondamenti che garantiscono dignità e rappresentatività alle vicende personali, eppure le due parabole poetiche sembrano tradire, nonostante tutto, una comune continuità con l’Erlebnislyrik tradizionale e la lirica romantica.

Al di là di alcune oscillazioni nello statuto, l’io lirico che si incontra negli Strumenti umani è un personaggio ben individuato e autobiografico, che attribuisce ancora un forte valore a episodi e aneddoti personali. In queste pagine vorrei dedicarmi all’analisi di Pantomima terrestre, un testo tratto da Apparizioni o incontri, la sezione degli Strumenti umani in cui le tangenze con Nel magma passano non solo per la matrice lirica dei componimenti, ma anche per l’apertura a movenze narrative e per la presenza di personaggi distinti dall’io e con diritto di parola.

 

…auprès de margelles dont on a soustrait
les puits.
René Char

Ma senti – dice – che meraviglia quel cip sulle piante
di ramo in ramo come se il poker continuasse all’aperto:
dimmi se non è stupenda la vita.

Chiaro che cerca di prendermi per il mio verso.
Vorrei rispondergli con un’inezia della mente
un’altra delle mie tra le tante
(gente screziata di luna, per porticati
e uno attorno tra loro, dall’uno all’altro:
assaggiate questa fresca delizia).

Certo, – rispondo invece – è stupenda. Vuoi testimoni?
Prove per assurdo? Controprove?
Eccoti di giorno in giorno la mia acredine
la mia insofferenza di gente in gente
(ma queste brezze tra le secche e le rapide
tra i diluvi e le requie dell’essere questi balsami…)

Pare bastargli: ma dunque (benedicente, bonario)
ma allora, coraggio!
_____________Per giravolte di scale
va su col suo coraggio.
_______________Parli – gli grido dietro –
come un credente di non importa che fede.
E lui per rami di scale, mezza faccia già disfatta
mezza in ombra, canzonandomi con parole d’autore: ¿le gusta
este jardin que es suyo? Evite…
dal basso gli completo la frase: que sus hijos lo destruyan
rifacendogli il verso.
Ma se è già guasto, con queste stesse mani:
e tu chi sei tu così avanti sulla scala del giudizio
e del valore, dillo ai tuoi discepoli e seguaci
ai tuoi consoci, vengano a questi bicchieri
di delizia a questi apparati di fresco
ma in comunione ma tutti ma in una volta sola.
È rimasta una chiazza una pozza di luce
non convinta di sé un pozzo di lavoro con attorno
un girotondo di prigionieri (dicono) sulla parola:
sanno di un bagliore che verrà
con dentro, a catena, tutti i colori della vita
– e sarà insostenibile.
Sembra allora di capirlo a che si ostinano
dove puntano che cosa vogliono o non vogliono
che cosa negano che scappatoie infilano
i motori nella giostra serale
con quelli che fingono a ogni giro di andare via per sempre
con quelli che fingono a ogni giro di arrivare
dentro un paese nuovo per cominciare ex novo
– e i primi lampi
___________lo scroscio sulle foglie

                                                         l’insensatezza estiva.

Uno degli aspetti che accomunano la poesia di Luzi e di Sereni all’altezza dei primi anni Sessanta è il ricorso al modello della Commedia. In un’intervista rilasciata alla fine degli anni Novanta, Luzi ha dichiarato che in «Nel magma sono descritti molti incontri, proprio come avviene in Dante. In Petrarca invece sono pochi gli incontri veri, reali»[7]. Con questo rilievo Luzi non solo ci aiuta a decifrare il carattere che lui stesso attribuisce all’incontro[8], ma anche ci aiuta a inquadrare un modulo retorico piuttosto insolito nella nostra tradizione lirica.

Già da un approccio superficiale alle poesie di Nel magma, risaltano l’estensione, la presenza all’interno dei componimenti di personaggi con diritto di parola e la conseguente alternanza di parti diegetiche e parti mimetiche (evidenziate dalle virgolette): tutti elementi considerabili indici di narratività[9]. Recuperando il dizionario e le categorie della narratologia, possiamo dire, allora, che nelle poesie di Nel magma l’io lirico assolve tout court alla funzione di narratore omodiegetico. Si presenta, infatti, come chi dialoga con figure amiche o antagoniste e vive l’esperienza e, allo stesso tempo, come chi la ripercorre, offrendo al lettore il proprio punto di vista, commenti, interpretazioni sui fatti. Ciò che il Luzi di Nel magma impara da Dante è la possibilità di attribuire all’io più ruoli insieme, quello dell’agens e quello del narratore che con chiarezza e coerenza si sforza di comunicare i fatti accaduti o di riportare fedelmente, attraverso il discorso riferito, la parola altrui[10].

Nei testi di Nel magma Luzi, in parte, sofistica il modulo retorico dantesco. Nella Commedia c’è un solco profondo tra il tempo in cui Dante, compiendo il suo viaggio ultraterreno, incontra, da personaggio, le anime dei trapassati e il tempo in cui, in qualità di narratore, verbalizza l’esperienza ormai conclusa. Anzi, il viaggio può essere raccontato proprio perché è stato portato a termine[11]. In Nel magma, invece, l’uso del presente nel suo aspetto fondamentale lascia pensare a un racconto in presa diretta, in cui il piano temporale dell’io che vive e il piano dell’io che narra coincidono, sono simultanei (si veda ad esempio Ménage, uno dei testi più noti della raccolta). È un’anomalia che contraddice una caratteristica quasi ovvia della narrazione e cioè che, come direbbe Genette, essa «possa essere soltanto posteriore a quanto racconta»[12]. Se nella Commedia Dante ricerca l’effetto di presenzialità, la permanenza del passato nel presente, attraverso diversi mezzi stilistici e retorici, ma mantiene comunque la diegesi al passato e all’imperfetto, nei componimenti di Nel magma Luzi va oltre, proseguendo la strada intrapresa dal proprio modello fino a forzare la categoria del tempo, con il conseguente dazio di un’esibizione di artificiosità.

Inevitabilmente la poesia assume la fisionomia di un enunciato «in situazione», con uno schiacciamento del modulo retorico su soluzioni tipicamente teatrali e il parziale avvicinamento del lettore al ruolo funzionale di spettatore[13]. Il titolo della raccolta luziana, Nel magma, andrà letto, pertanto, come un’indicazione dello spazio scenico in cui avvengono i fatti e, insieme, del contesto da cui parla il personaggio lirico che li racconta.

Anche Sereni, nei primi anni Sessanta, guarda con interesse al modello della Commedia. D’altronde, lo stesso titolo Apparizioni o incontri allude alla massiccia presenza, all’interno dell’ultima sezione degli Strumenti umani, di componimenti dalla struttura di origine dantesca[14]. In Pantomima terrestre ritroviamo l’incontro-dialogo con un altro personaggio, e un soggetto che è insieme agens e narratore. Sebbene, anche qui come nei componimenti di Nel magma, l’io provi a verbalizzare l’esperienza proprio mentre la vive («dice», v. 1, «rispondo» v. 10) e la narrazione in presa diretta sia finalizzata alla ricerca dell’effetto di presenzialità, le differenze rispetto alla gestione luziana del racconto sono piuttosto marcate.

Già le prime strofe di Pantomima terrestre mostrano una perdita di consistenza della linea della diegesi ben salda in Luzi. Il narratore si trattiene dal mediare, istillando persino il dubbio che voglia realmente indirizzare il suo discorso a un destinatario. Non ricostruisce il contesto, la situazione in cui si trova, né si sofferma sulle premesse o gli antefatti del dialogo come nelle poesie di Nel magma. Nei versi iniziali l’io sereniano non presenta l’incontro dall’inizio, ma riporta immediatamente la battuta di un interlocutore anonimo, limitandosi per quanto lo riguarda a un «dice» (v. 1). La voce altrui dichiara, con uno spostamento logico che poggia sull’onomatopea, che sentire il cinguettio degli uccelli sugli alberi prolunga il piacere provato prima al tavolo da gioco e chiede conferma che l’esistenza sia «stupenda» (vv. 1-3). Chi legge, proprio per l’attacco straniante in medias res, ha l’impressione di trovarsi di fronte al seguito di fatti che non hanno varcato i «confini della pagina»[15]. Certo, si capisce che è finita una partita a poker e che i giocatori sono usciti all’aperto, forse in un giardino, ma manca quella definizione chiara dello spazio scenico, o la descrizione minuziosa dei personaggi e dei loro gesti che si ritrovano in Luzi. Più che a uno spettatore a cui è rivolto un lungo a parte teatrale, il lettore di Pantomima terrestre somiglia a un intruso che, reso meno partecipe del discorso dell’io, deve continuamente fare ipotesi, collegare i frammenti che riesce a cogliere.

In Pantomima terrestre al ritirarsi della cornice diegetica si accompagna la successione ravvicinata di diversi spezzoni mimetici. Così, in pochi versi, si accalcano il discorso riferito dell’interlocutore (vv. 1-3), un lacerto di monologo autocitato non introdotto dalla voce narrante (al v. 4, come se mancasse «penso» o «mi dico»), quindi la cornice diegetica in cui i pensieri dell’io sono presentati con un discorso «organizzato in vista di una comunicazione»[16] (vv. 5-6) e poi di nuovo il monologo interiore, riportato tra parentesi (vv. 7-9). L’abilità di Sereni, ben visibile in Apparizioni o incontri, consiste proprio in questa disinvoltura nel variare in modo brusco il «punto d’intonazione», come se la voce dell’enunciatore arretrasse ed avanzasse continuamente tra una dimensione pubblica e una mentale[17]. In Pantomima terrestre il recupero del modulo retorico della Commedia è mediato da Eliot e da altri autori stranieri della linea dantesca, in cui si trova un ampio ventaglio di soluzioni modernistiche. Grazie a tecniche non omogenee ma decisamente suggestive, il lettore è messo in condizione di seguire l’intensa attività psichica dell’io con un’attenzione che è quasi inversamente proporzionale a quella accordata, lungo tutto il componimento, all’ambiente e ai gesti dell’altro personaggio.

Se si guardano insieme la seconda strofa e la terza, in cui è riportata la risposta che il personaggio lirico dà al proprio interlocutore, si nota proprio lo scarto tra l’articolarsi dei pensieri dell’io silenzioso e quanto lui effettivamente pronuncia subito dopo, cioè il «grumo», per dirla con Testa, «di non detto e intenzione del dire»[18]. Nonostante capisca che l’altro, l’antagonista, vuole imbonirlo insistendo su una sua debolezza (v. 4), stuzzicando una sua innata vocazione «a conciliarsi nella contemplazione della vita»[19], l’io lirico si lascia sfiorare dall’idea di ribattere con una delle sue trovate, con una prova di lirismo («con un’inezia della mente | un’altra delle mie tra le tante», v. 8). Nel monologo interiore riportato tra parentesi prende corpo così la potenziale risposta nell’immagine dell’uomo che si aggira tra dei portici invitando i presenti, illuminati dalla luna, a godere di sublimi delizie (vv. 7-9).

Eppure, alla fine, l’antagonista riceve una risposta dal taglio sarcastico; nella parola altrui, per dirla con Bachtin, è installata una nuova intenzione: che l’esistenza sia «stupenda» e, dunque, che sia possibile una conciliazione, un rapporto armonico con il mondo, è dimostrato per contrasto dal costante livore e dall’insofferenza con cui l’io vive in mezzo agli altri uomini (vv. 11-13). Presentando al lettore un soggetto che si muove sempre su due piani, che interagisce con gli altri e contemporaneamente riflette tra sé e sé, Sereni può mettere in luce la discrepanza tra le manifestazioni esteriori e i movimenti della coscienza che le hanno generate. Si delinea così il profilo di un individuo tipicamente moderno, che non è saldo e compatto, ma subisce la pressione di spinte diverse che gli tolgono risolutezza. Ed infatti, la battuta di discorso diretto pronunciata dal personaggio lirico (vv. 10-13) è seguita da un ulteriore frammento di monologo autocitato, in cui l’io si lascia ancora andare a «un’inezia della mente».

I punzecchiamenti continuano a distanza, fino a diventare un duetto[20] con citazioni letterarie (dal romanzo Sotto il vulcano di Lowry, «canzonandomi con parole d’autore», v. 21). Attenendosi al tono ironico, mentre si allontana su una scala, l’antagonista invita ad affrontare, proprio perché la vita è stupenda, le difficoltà delle circostanze («ma allora, coraggio»). L’io, invece, lo rimprovera di sembrare un fedele di una religione da nulla, di aggrapparsi a fragili illusioni («di non importa che fede», v. 19). La fede dell’altro ha qualcosa di simbolistico e panico: la piacevolezza del giardino in cui i due sono usciti dopo il poker rimanda direttamente all’armonia dell’esistenza; transitivamente allora il mondo è associato a un grande eden di cui l’uomo dispone («es suyo», v. 22) e che deve essere preservato evitando che le nuove generazioni lo distruggano («que sus hijos lo destruyan», v. 23).

Nella quinta strofa l’io, arrabbiato, demistifica mentalmente la prospettiva dell’altro, ormai uscito di scena. Non si corre il rischio che le generazioni future distruggano il giardino e quindi, metaforicamente, il mondo, perché questo è già guasto, anche per responsabilità diffuse («con queste stesse mani»). Se la vita fosse veramente stupenda, se il mondo fosse davvero un eden, tutti coloro che sono dello stesso avviso dell’antagonista (i «discepoli e seguaci») dovrebbero poter godere delle sublimi delizie e dei rimedi miracolosi insieme e pacificamente (vv. 27-30). Il personaggio lirico non riconosce all’interlocutore una superiorità morale e dunque gli nega il ruolo di guida («così avanti nella scala del giudizio | e del valore», v. 26); l’altro è più vicino alle figure tronfie, piene di sé, che dispensano consigli in Nel magma (il marito-guru di Ménage, l’uomo di Nella hall) che non a certe figure degli Strumenti umani, come il grande amico della poesia eponima o G. di Corso Lodi, a cui l’io vuole realmente affidarsi.

Eppure se anche qui il pensiero altrui è negato, e l’autore, per dirla con Bachtin, non concede all’altro personaggio l’ultima parola[21], è anche vero che l’io autobiografico non polemizza interiormente solo con l’interlocutore, ma anche con una parte di sé: con le illusioni dell’antagonista e dei suoi sodali sono smascherati pure i limiti delle proprie inezie. Fermo restando il vantaggio finale dell’orizzonte del poeta, non si può parlare come per i testi di Nel magma di «discorso monologicamene sicuro di sé»[22], perché la coscienza del personaggio lirico si rivela interiormente dialogizzata. Luzi blinda la posizione del soggetto regolando lo scambio dialogico con una forza centripeta; l’antagonista in Nel magma finisce sempre per assolvere ad un ruolo gregario o, comunque, interno all’espressione del punto di vista del soggetto[23]. In Pantomima terrestre invece l’incontro con l’antagonista è usato, strumentalmente, anche per mettere a fuoco i punti deboli e le insicurezze, tutt’altro che superficiali, dell’io.

Con la quinta strofa, dunque, si registra un nuovo arretramento della voce alla dimensione interiore, senza che il piano diegetico lo segnali. Sereni adotta qui una diversa soluzione rispetto a quelle usate in precedenza: l’io lirico, sebbene sia ormai rimasto da solo, continua a indirizzarsi mentalmente all’interlocutore, ormai nient’altro che un tu fittizio[24]. Nelle ultime due strofe di Pantomima terrestre il modulo retorico evolve ulteriormente: la distinzione dei due livelli, della diegesi e della mimesi, si perde e la poesia finisce per somigliare sempre più al monologo dell’io che pensa e ragiona tra sé e sé. Senza grandi frizioni, in questa parte finale, il presente slitta da tempo della narrazione in presa diretta a tempo proprio del genere lirico. Visto nella sua interezza il modulo retorico di questo testo-campione appare così più duttile, suscettibile di torsioni sconosciute ai testi di Nel magma.

Dopo aver messo a fuoco i limiti dell’atteggiamento con cui l’antagonista affronta la vita, nella sesta strofa i pensieri del personaggio lirico si spostano su un’immagine allegorica di difficile decifrazione. È una delle «visioni immotivate» (La pietà ingiusta) che si profilano all’io lirico nei testi di Apparizioni o incontri. Proprio per l’esperienza vissuta realmente da Sereni durante la seconda guerra mondiale, il lettore del Diario d’Algeria e degli Strumenti umani non fa fatica a riconoscere nella figura del prigioniero una proiezione dell’io[25], eppure in Pantomima terrestre il riferimento ai prigionieri sulla parola rimane, nel suo complesso, oscuro. Anche qui, come capita spesso nella poesia moderna, per sciogliere i nodi del discorso lirico sembra necessario l’ausilio di un documento extratestuale. C’è infatti una prosa autobiografica degli stessi anni, in cui l’autore parlando della reclusione algerina, spiega come i detenuti del suo campo fossero definiti proprio «prigionieri sulla parola». Gli americani cioè li consideravano più dei «collaboratori» che non dei prigionieri, promettendo loro privilegi di fatto mai concessi[26]. Il girotondo di prigionieri sulla parola si configura, così, un correlativo oggettivo dell’esistenza, nella società contemporanea, di alcuni uomini non ben identificati, considerati individui liberi («dicono», v. 3) ma, in effetti, obbligati a compiere gesti monotoni. Torna qui uno dei temi principali degli Strumenti umani, ovvero l’«immobilità e circolarità»[27] della vita nell’epoca presente, la «ripetizione dell’esistere» di cui si parla in un altro componimento degli Strumenti umani (Il piatto piange).

I prigionieri però lavorano attorno a una «chiazza», «una pozza» che dovrebbe rimandare luce ma in realtà non si accende («non convinta di sé»). Il discorso dell’io non è immediatamente accessibile, eppure sembrerebbe che i prigionieri lavorino perché arrivi un «bagliore», affinché il tratto di terra che circondano si illumini con una luce insolita, capace di restituire «tutti i colori della vita» (v. 35). Se in Piccolo testamento, quasi in chiusura della Bufera, il «tenue bagliore» è il lascito del poeta, quanto della propria esistenza vissuta l’io disilluso può, orgogliosamente, esibire e consegnare in eredità, in Pantomima terrestre il «bagliore» è una profezia di futuro, realtà incontenibile («- e sarà insostenibile»), attesa con fiducia e non ancora compiuta. Così, anche attraverso il rimando all’ipotesto di Montale, il «bagliore» si carica di una valenza alternativa, quasi antagonistica, rispetto al negativo dell’epoca contemporanea. Con la sesta strofa siamo di fronte a una situazione analoga a quella della Spiaggia, l’ultimo testo degli Strumenti umani. La «pozza di luce non convinta di sé» è speculare alle «toppe solari», «toppe d’inesistenza, calce o cenere | pronte a farsi movimento o luce» (vv. 11-12), in cui s’imbatte l’io percorrendo un «tratto di spiaggia mai prima visitato» (v. 5). Non è quindi il giardino scelto dall’antagonista, ma sono quelle zone scartate da una cernita («È rimasta», v. 31), le realtà che non sono state affatto considerate[28] su cui, utopicamente, bisogna puntare se si vuole arrivare ad una vita autentica.

Con un movimento mentale, che si snoda anche attraverso l’apparizione straniante di un’immagine dal valore allegorico, il personaggio lirico di Pantomima terrestre riesce ad interrompere la «percezione superficiale delle cose»[29] e a impossessarsi di una verità profonda sul senso dell’esistenza e su come stare al mondo. Si intravede, qui, la distanza rispetto ai meccanismi epifanici delle Occasioni, in cui l’io generalmente accede a degli attimi dal forte valore conoscitivo attraverso la percezione sensoriale di spunti oggettivi. In Sereni alla puntualità istantanea si è sostituito un procedimento più disteso nel tempo, così come sembrano aver perso rilevanza i segni fisici, gli indizi sonori o visivi che realmente circondano l’io. Non è una singola parola o una battuta proferita durante il dialogo con l’antagonista a scatenare direttamente il momento significativo, o per riprendere il vocabolario di Genette, a fare da detonatore[30], ma lo scambio con l’altro mette in moto la coscienza del personaggio lirico, che ondeggia e vaga in territori ingarbugliati, segnati da ragionamenti, libere associazioni di idee, visioni, fino a una rivelazione del senso dell’esistenza. Gli uomini sono condannati, senza via di scampo, a una vita bloccata, immobile, segnata dal ritorno del sempre uguale e assediata dallo spreco del tempo. Si può semmai scommettere su un futuro a lungo termine che, anche grazie ad un lavoro collettivo, restituisca «tutti i colori della vita», una pienezza e un’integrità finora sconosciute. Nel presente intanto bisogna accettare la condizione negativa, non ignorarla o celarla con delle illusioni da propinare agli altri, come fa l’antagonista del dialogo.

Forte di questa nuova consapevolezza, l’io lirico è in grado di individuare la logica sottesa al carosello di auto, ai «motori della giostra serale» che si affollano quotidianamente nei centri abitati («vv. 37-40). Talvolta negli Strumenti umani Sereni descrive una condizione generale parlando di uomini che abitano in «paese» (v. 43), convinto che lo squallore che invade i piccoli centri eguagli, se non addirittura superi, quello delle metropoli. Ulteriore aggiornamento della «ruota» montaliana degli Ossi di seppia, anche la metafora della «giostra», come il «girotondo», rievoca l’immagine di un movimento circolare e ripetitivo, di esistenze bloccate. Ma l’io lirico non si riconosce affatto nei «motori», né nutre alcuna simpatia per loro che, a ben vedere, sono la versione terrestre del «trambusto di scafi e motori», del caos assordante e meccanizzato deprecato nella poesia Gli amici. Gli abitanti del paese cercano di negare il vuoto che invade la vita, la «ripetizione dell’esistere»: ma le strategie che adottano sono «scappatoie» (v. 39), scopertamente illusorie e precarie. Non potendo realmente sottrarsi alla monotonia della «giostra serale», «fingono» di andare via e tornare in paese (vv. 41-42), come se bastasse così poco ad affrancarsi dalla propria condizione («cominciare ex novo», v. 43). Il titolo polisemico Pantomima terrestre allora alluderà al dialogo della prima parte tra l’io e l’antagonista e, più in generale, all’atteggiamento diffuso con cui gli uomini affrontano la vita. Presentato come un paradiso terrestre, il mondo in effetti somiglia più a un teatro, a un groviglio di finzioni e fragili mascheramenti adottati per esorcizzare, più o meno consciamente, la verità della noia e del «guasto». Demistificate le scappatoie e accettata la realtà per quello che è, l’io lirico può capire adesso anche l’improvviso temporale estivo, attribuirgli il giusto significato.

Nella prima edizione degli Strumenti umani, dove manca I ricongiunti, Pantomima terrestre è stretta, fa da cerniera, tra il Muro e La spiaggia, due poesie capitali, che sono, come notava Fortini, l’una «l’inverso» dell’altra[31]. Analogamente al Muro, il nostro testo-campione ribadisce l’intransitività delle cose, e così se, secondo tautologia, «una sera d’estate è una sera d’estate», un temporale estivo non è nient’altro che se stesso. Come insegna il fantasma del padre, la realtà va accettata, laicamente, per quello che è senza attribuzioni di alcun sovrasenso simbolico. Rovesciato il mito dell’estate dell’Alcyone, dell’identificazione panica e del vitalismo dannunziano, è proposto «come supremo valore-dovere la identità delle cose a se stesse»[32]. Dall’altro lato, però, come nella Spiaggia, in Pantomima terrestre Sereni non rinuncia a proporre una «profezia palingenetica»[33], la prospettiva di un futuro diverso, capace di sostituire all’afasia del presente una parola collettiva (il «parleranno» con cui si chiude la raccolta), e al vuoto che affligge l’esistenza «tutti i colori della vita». La conferma d’identità lascia così filtrare la speranza di uno scatto che superi il negativo.

Al pari di altri testi degli Strumenti umani, Pantomima terrestre offre appigli per più livelli esegetici. Metapoeticamente, infatti, le inezie dell’io rimandano a una poesia sentita come tentazione («il mio verso», v. 4), ma anche da evitare perché fortemente mistificatoria. A questa pratica che rischia di cancellare la realtà, sublimandola, se ne contrappone un’altra, più credibile, che riconosce le brutture e il degrado del mondo. Infatti, analogamente alle «toppe» della Spiaggia, anche la «pozza» con attorno il «girotondo di prigionieri» può essere letta come una metafora della poesia. Forse, allora, i «prigionieri» oltre che sulla, sono anche della «parola»: per loro vale quanto Fortini ha sempre detto di Sereni, e cioè che per lui la parola è un dovere[34]. E d’altronde negli Strumenti umani l’attività poetica è spesso associata all’«esercizio», inteso anche nel senso etimologico del termine, o espressamente al lavoro, come si evince da A un compagno d’infanzia, un’altra poesia di Apparizioni o incontri[35]. Eppure, lo abbiamo già visto, il risultato del lavoro dei prigionieri è più un’ipotesi in cui credere che non una certezza inesorabile: la pienezza della vita, la vittoria della poesia sull’afasia sono il futuro prospettato da una profezia in fondo solo vociferata («sanno», v. 34).

Mutuando dai Fogli di Ipnos (173), tradotti pochi anni prima (1958) e citati nell’epigrafe, la metafora della poesia come «pozza», Sereni la risemantizza. In Char la pozza di acqua marina è già «bella a barlumi, grazie ai cristalli di sale che racchiude e che lentamente si sostituiscono al suo essere vivo»[36]; la vita cioè cede il passo ad una cristallizzazione che preserva ed eterna il bello. In Pantomima terrestre invece la «pozza» è, come abbiamo visto, un doppio delle «toppe» della Spiaggia: e, in prima battuta, di fronte alle «toppe», così come di fronte alla «pozza», l’io non può che tradire un atteggiamento dubbioso: «Non | dubitare, – m’investe nella sua forza il mare – | parleranno».


[1] Ora in Appendice a M. Luzi, L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998.

[2] Rispettivamente F. Fortini, Saggi italiani, I, Garzanti, Milano 1987, p. 126 e D. Isella, La lingua poetica di Sereni in La poesia di Vittorio Sereni, Librex, Milano 1985, p. 25.

[3] G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, p. 126.

[4] Scrive Raboni: «Più della storia come dice Debenedetti, più della realtà come a un certo punto mi è parso di poter ipotizzare, a entrare con il Diario nella poesia di Sereni potrebbe essere, più precisamente, l’esperienza» (in G. Raboni, Prefazione a V. Sereni, Diario d’Algeria, Einaudi, Torino 1998, p. X).

[5] G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005, pp. 187-189 e Id. Forma e solitudine, cit. Gli studi critici più approfonditi sul classicismo moderno di Montale rimangono a tutt’oggi A. Casadei, Prospettive montaliane. Dagli «Ossi» alle ultime raccolte, Giardini, Pisa 1992; R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Bari-Roma 1999, pp. 169-173; G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Pacini Fazzi, Lucca 2002 e soprattutto T. de Rogatis, Montale e il classicismo moderno, Iepi, Pisa-Roma 2002.

[6] G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 389.

[7] M. Luzi, Le vie del ritorno a Dante, a cura di L. Gattamorta in «Resine», XXI, 80, 1999, p. 18.

[8] Sul tema dell’incontro, da sempre largamente frequentato dalla letteratura europea, rimando ovviamente a R. Luperini, L’incontro e il caso, Laterza, Roma-Bari 2007.

[9] R. de Rooy, Il narrativo nella poesia moderna, Cesati, Firenze 1997, pp. 60-79.

[10] S. Verdino, Introduzione a M. Luzi, L’opera poetica, cit., p. XXXI.

[11] Ch. S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 463-94.

[12] G. Genette, Figure III, Einaudi, Torino 1986, p. 263.

[13] Cfr. E. Testa, Lingua e poesia negli anni Sessanta, in S. Giovannuzzi (a cura di), Gli anni ’60 e ’70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, S. Marco dei Giustiniani, Genova 2003, p. 35 e P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea, Carocci, Roma 2005, p. 58.

[14] G. Barberi Squarotti, Gli incontri con le ombre, in La poesia di Vittorio Sereni, cit.; P. Pellini, Le toppe della poesia, Vecchiarelli, Roma 2004, p. 181 ss.; G. Mazzoni, Forma e solitudine, cit., p. 162.

[15] E. Testa, Per interposta persona, Bulzoni, Roma 1999, p. 52.

[16] G. Mazzoni, Forma e solitudine, cit., p. 165.

[17] Ivi, p. 163.

[18] E. Testa, Per interposta persona, cit., p. 22.

[19] L. Lenzini, Commento in V. Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-1981), a cura di L. Lenzini, Rizzoli, Milano 1990, p. 246.

[20] E. Testa, Per interposta persona, cit., p. 22.

[21] M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 96.

[22] Ivi, p. 290.

[23] Cfr. E. Testa, Lingua e poesia negli anni Sessanta, in S. Giovannuzzi, Gli anni ’60 e ’70 in Italia, cit., p. 38.

[24] Qualcosa di analogo a quanto succede ad esempio in Arie del ‘53-54 in cui si legge: «Dove vi siete cacciati – gridi dentro di te, infuriato contro gli amici che non trovi», in V. Sereni, La tentazione della prosa, Mondadori, Milano 1998, p. 41; cfr. G. Cordibella, Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni, Pendragon, Bologna 2004, p. 84.

[25] P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, p. 379-381.

[26] È L’anno quarantacinque ora in V. Sereni, Gli immediati dintorni, cit., pp. 72-79; ma si veda anche, nello stesso volume, lo scritto sereniano Le sabbie dell’Algeria.

[27] P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Prima Serie, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 402.

[28] F. Fortini, Saggi italiani, I, cit., p. 186.

[29] G. Mazzoni, Forma e solitudine, cit., p. 175.

[30] G. Genette, Figure III, cit., p. 59.

[31] F. Fortini, Saggi italiani, I, cit., p. 186.

[32] Ivi, p. 185.

[33] P. Pellini, Le toppe della poesia, cit., p. 93.

[34] F. Fortini, Saggi italiani, II, cit., p. 205.

[35] In un autocommento, Sereni descrive I versi come gesto di «difesa» di «una certa moralità del lavoro o, se si preferisce del mestiere», ora in V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Mondadori, Milano 1995, p. 585; ma anche cfr. P. Pellini, Le toppe della poesia, cit., pp. 79-81.

[36] R. Char, Fogli d’Ipnos (1943-44), trad. di V. Sereni, Einaudi, Torino 1968, p. 91.

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  1. Dario Postiglione ha detto:

    Perdonatemi, ma la lettura mi sembra incredibilmente ingenua. Si tace che nell’antagonista è riconoscibile Fortini, vera e propria presenza fantasmatica in tutta la seconda produzione poetica sereniana. Si tace che la “fede” allusa è il marxismo, e in tal modo si fraintende radicalmente il senso del discorso dell’antagonista – anch’esso sarcastico nei confronti del poeta -, ignorando così l’autentica posta in gioco: la legittimità della poesia, e di una certa idea forte di poesia, di fronte alla storia e alla tensione politica. Sereni non è mai vago, i suoi rovelli e le sue polemiche sono sempre molto individuati, ancorché presentati in modo estremamente ellittico. Spero di aver modo altrove di fornire prove argomentate e documentate di quanto sostengo.

  2. Damiano Frasca ha detto:

    1. Non mi dia del voi, il tu o il lei vanno benissimo.
    2. Continuo a non capire perché l’interlocutore-antagonista di Pantomima terrestre dovrebbe essere Fortini: ho difficoltà a pensare che Sereni avesse così poca stima di un intellettuale di quel livello da raffigurarlo così ottuso (e infatti non ne aveva così poca).
    3. è un testo contro certe illusioni, certe ideologie, certe poetiche. L’uno a uno qui non funziona.
    4. ”Attenendosi al tono ironico, mentre si allontana su una scala, l’antagonista…”
    5. Capisco che nel dibattito in rete si è sempre tentati dall’usare certi toni (‘incredibilmente ingenua’), ma ascolti Sereni, non rinunci alla misura e ricorra alla rissa quando e con chi è davvero necessario…

  3. Dario Postiglione ha detto:

    1. Era un voi collettivo, rivolto al blog. Ma ha ragione, avrei dovuto rivolgervi direttamente a lei.
    Riguardo ai punti 2., 3., 4., non mi dilungo a contestare; è qualcosa su cui sto ancora lavorando, ma credo si possano fornire rilievi puntuali. Fortini chiaramente è sintesi simbolica e portavoce, a quest’altezza, di “certe illusioni, certe ideologie, certe poetiche”, come osserva lei giustamente; l’amicizia che lo lega a Sereni in quegli anni è non priva di asprezze e conflitti, incomprensioni e amarezze, come si deduce dall’epistolario; inoltre io non credo che l’interlocutore di Pantomima Terrestre sia dipinto da Sereni come “ottuso”, né che venga facilmente smentito dal poeta: ed è qui che forse poggia la nostra diversità di lettura – Sereni si sente minacciato e contrattacca sarcasticamente, ma l’attacco subito gli brucia e lo invita a diffidare, tramite lo sguardo altrui che pur non approvando stima, di se stesso – è quanto accade in molte poesie degli Strumenti umani.
    5. Ha ragione, l’espressione è esagerata, ma alle 2 di notte è facile perdere il filtro inibitore, e l’immediatezza del mezzo lascia adito a facili escandescenze dovute a indole. Il buono della violenza retorica è che è appunto retorica, non fa male a nessuno. Ma me ne scuso, e preciso: non è ingenua la lettura della poesia nel suo complesso – trovo parecchi rilievi giusti e originali, come i riferimenti a Char e ad altri testi della raccolta, o la differenza compositiva nell’ordine di inventio e dispositio rispetto al meccanismo epifanico montaliano – ma è debole l’interpretazione dell'”occasione-spinta” nucleare (anche se “occazione-spinta” è, per l’appunto, espressione troppo forte), di cui probabilmente è ricostruibile, con elementi sia interni che esterni al testo, un quadro più preciso. A mio avviso non si tratta di trascurabili dettagli biografici, ma di qualcosa che rende più stratificata, e meno pacificata, la risoluzione del dilemma sereniano qui esposto, e aiuta a collocare la poesia in uno scenario più ampio di conflitti e influenze.
    6. Potrei sbagliarmi, come spesso capita a creature fallibili quali siamo noi essere umani. Se dovesse essere interessarle, quando avrò qualcosa di presentabile a un pubblico glielo posso inoltrare, così passerò a mia volta al suo vaglio critico. Mi scuso ancora per l’entrata “a gamba tesa”, ma non è dovuto tanto a ragioni di acribia polemica, quanto a eccessiva vicinanza all’oggetto di studio. Pantomima Terrestre è una delle poesie che ho più care.

  4. Dario Postiglione ha detto:

    rivolgermi*

  5. Dario Postiglione ha detto:

    (a rileggermi sono pieno di refusi, ma niente che mini seriamente l’intelligibilità)

  6. Rodrigo ha detto:

    Splendida analisi, davvero utilissima, grazie!

    Non concordo solo su quando afferma che «il personaggio lirico di Pantomima terrestre riesce ad interrompere la “percezione superficiale delle cose” e a impossessarsi di una verità profonda sul senso dell’esistenza e su come stare al mondo». Ritengo infatti che l’io lirico non si identifichi affatto con i “prigionieri sulla parola” che si muovono in “girotondo” attorno al “pozzo di lavoro / pozza di luce”, ma che essi rappresentino coloro che, come l’antagonista delle prime strofe, ancora sperano in un’autentica futura libertà, in una pienezza di vita che tentano di attingere a un “pozzo” di cui (come spiegato in esergo) non resta che il “bordo”.

    Ecco allora che quella “luce non convinta di sé” verrebbe a corrispondere ai “bicchieri di delizia”, agli “apparati di fresco” (e dunque anche a quelle “brezze” e a quei “balsami”) citati in precedenza.

    Grazie comunque ancora e complimenti per l’ottimo lavoro.

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